Notizie Radicali
  il giornale telematico di Radicali Italiani
  lunedì 04 aprile 2005
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Leonardo Sciascia, vent'’anni Fa… 60)

• a cura di Valter Vecellio

NEL CORSO DI UNA VITA (quinta parte)

 

Di cui hai dato una motivazione in un testo che non è delle tue cose migliori.

Era infatti una scelta che valeva nell’ambito locale, nel senso del “buon governo”, e che acquistò erroneamente una risonanza nazionale. Voleva essere semplicemente il “basta” di un cittadino palermitano.

 

Perché uno che batte ai tasti, ed è in questo scrittore profondamente politico, deve andare in consiglio comunale? Quella è una sede che non abbisogna di scrittori, ma di economisti, di esperti della pubblica amministrazione, ecc.

Io credevo semplicemente che quel mio gesto, compiuto assieme a Renato Guttuso, potesse servire da amplificazione a un’opposizione di condurre nel modo più intransigente.

 

Stiamo parlando di politica o di moralismo? Le due cose non sempre coincidono.

Io pensavo a un moralismo da far valere dentro una politica del PCI. A questo mi sollecitava la presenza di dirigenti come Achille Ochetto, il fatto che il PCI siciliano avesse iniziato un’autocritica del periodo milazziano.

 

C’era stata, prima, la risposta positiva della Sicilia al referendum sul divorzio. Era stata sconfitta, hai scritto, la propaganda bolsa degli antidivorzisti. “Tutto un rameggiare di corna, a minaccia, a irrisione, si era levato dalle trincee del SI”.

Era difatti una propaganda talmente stupida da risultare controproducente. Ne ebbi la netta sensazione nelle ultime settimane pre-elettorali.

 

Dopo “La corda pazza”, hai fatto tacere la tua vena saggistica. Perché?

Ne ho fatto piuttosto un uso sporadico, legato ad occasioni. Scritti che prima o poi raccoglierò in volume.

 

Il tuo ideale di lavoro?

E’ rimasto immutato, un libro l’anno, quattro cartelle al giorno, per un totale di centotrenta pagine a stampa, diciamo tre mesi alla macchina da scrivere. Il resto dell’anno a pensarci su.

 

Eppure sei richiestissimo. I giornali fanno a gara per averti.

Sono io che non cerco i giornali. Mi sembrano divenuti tutti uguali, fatti peggio che in passato, scritti in un italiano peggiore, con dei titoli insensati.

 

Si dice correntemente ce lo standard medio giornalistico si sia innalzata. Se c’è stato un livellamento è stato verso l’alto.

Nemmeno questo è vero. Un tempo i giornali erano “letti” prima che uscissero, letti interamente, in sede di controllo redazionale. Adesso si ha l’impressione che la prima lettura del pezzo giornalistico avvenga quando il giornale è già in edicola. La stessa etica professionale si è corrotta. Ho l’impressione che i giornalisti non siano più sui luoghi o, più precisamente che, essendoci, è come se non ci fossero, tanto le loro opinioni preesistono ai fatti. In tema di etica professionale io resto legato a quel che racconta Herbert Matthews in un brano delle sue memorie. Lui era corrispondente dalla Spagna in guerra per un giornale americano. A un certo punto alcuni giornali americani uscirono con la notizia che un certo piccolo paese era caduto in mano ai franchisti. A Matthews non risultava. Prese un’auto, si recò sul posto. E difatti i franchisti non c’erano. Entrò nell’ufficio telegrafico e inviò la smentita. Mentre usciva dall’ufficio telegrafico vide arrivare, lì in fondo al paese, le avanguardie franchiste. Se la batté dal lato opposto, quel che contava era aver smentito una notizia falsa; i franchisti quando il giornale era uscito, nel piccolo paese non c’erano ancora. Quella era la verità del momento e quella era la verità che Matthews cercava umilmente.

 

Qual è il tuo vizio peggiore? L’orgoglio?

Non credo, penso di essere, o di essere divenuto, molto tollerante.

 

Se ti beccano, sfoderi la lama.

Nemmeno questo. A me fare polemiche piace, non per niente mi sono formato sui testi di Voltaire, ma spesso me lo vieto. Dovessi seguire il primo istinto, di polemiche ne farei più spesso, sentendomi molto affilato.

 

”A proposito di un articolo dove Scalfari ti pungeva, hai detto che si trattava di quello “che una volta era chiamato l’articolo di fondo”.

Già.

 

Hai detto che il peccato più scusabile è la lussuria.

Quando parlo di lussuria intendo quella dell’immaginazione, alla Brancati, non quella dei fatti. La lussuria non ha niente a che vedere con la sensibilità, è un fatto puramente mentale, perfettamente non esistente.

 

Hai scritto di recente: “Comunque la donna possa dentro di sé e per sé cambiare il rapporto a quel che di nuovo e di diverso viene giustamente conquistandosi, mai arriverà a mutare nell’uomo, per l’uomo, il fatto di essere nell’amore, al vertice dell’amore, la porta del nulla. Questo farà sì che sempre sarà dall’uomo innalzata o degradata, innalzata e degradata: mai portata e tenuta come “compagna”, abusatissima parola che mai è stata vera. Potrà soltanto, a tentare una definitiva liberazione, negarsi all’amore dell’uomo: come pare si indirizzi qualche ramo del femminismo. Ma negarsi non soltanto all’atto dell’amore (che saremmo ad Aristofane), ma all’amore: facendo cioè in modo che nell’uomo si cancelli il pensiero dell’amore, e quindi dell’istinto. Al che si può arrivare, per come siamo arrivati. Ma resta da vedere se con ciò non finirà col negare se stessa o col restare, come l’Orlando della Woolf, a un incompiuto, mai compiuto, poema.

Credevo di aver indicato, con questo brano, un dramma. E invece mi sono arrivate, pubbliche e private, lettere di protesta di donne che mi accusavano di antifemminismo. Laddove io avevo scritto con profonda umiliazione di essere uomo, di non riuscire a considerare la donna come “compagna”, amputato la mia pare di questa condizione.

 

Quali sono i libri che in questo momento ti sono più cari, più necessari?

Mi interessa sempre Michel Foucault. Sto attendendo con ansia la prosecuzione della sua “Histoire de la sexualité, di cui è uscito finora il primo tomo, “La volonté de savoir”. Trovo molto interessanti gli scritti di Michel Serre, la sua visione del mondo articolata nei quattro volumi intitolati “Hermes”. Come vedi sono soprattutto saggistica.

 

Il tema della morte,il termine stesso, è sempre più frequente nei tuoi scritti.

Mi ci avvicino, infatti.

 

Pesante o leggero?

Piuttosto con leggerezza.

 

Il più bel libro di Borges?

E’ impossibile da indicare. La stessa sua “Antologia personale” non racchiude necessariamente le sue cose migliori. E’ un autore che va letto, e che conta, nell’insieme della sua opera.

 

C’è un tuo libro meno noto di altri, “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel”, che pure mi sembra uno dei tuoi capolavori in assoluto. Come te ne nacque l’idea?

Un mio amico di Milano mi aveva scritto a nome di uno studioso francese, François Caradec, che aveva bisogno dell’atto di morte di Raymond Roussel. Glielo avevo trovato e mi aveva colpito che alla dizione “causa della morte” ci fossero dei trattini, risultasse cioé ignota. Mi misi dunque alla ricerca dei documenti del fatto, all’archivio del Tribunale. Il procuratore capo, Scaglione per l’esattezza, mi fece sapere che fino al 2003 non se ne parlava neppure. Ma un mio amico conosceva e fece valere una sentenza della Corte Costituzionale che praticamente svincolava questi documenti. La cartella che li conteneva era intitolata “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel”. Mi sono poi messo a leggere Roussel, che comunque non è diventato il mio scrittore.

 

Ne hai scritto così: “La disperazione di Roussel attinse al talento, vi si confuse. Con una pazienza maniacale riuscì a trovare un passaggio segreto tra la mania, appunto, e la fantasia. Un valico che dopo di lui, sapendolo o no, molti attraverseranno. Alcuni senza talento e senza la disperazione di non averne. Altri avendone e con fin troppa consapevolezza uscendone; come Jorge Luis Borges”. Talento e disperazione a parte, della morte di Roussel ti interessava l’ambiguità. Ne risulta un libro per metà narrazione e per metà saggio

E’ l’uso del documento, di cui mi ero valso precedentemente in opere come “Morte dell’Inquisitore”. Anche Borges fa uso del documento, ma non sappiamo mai se si tratta di un documento vero o di un documento apocrifo. A costruire dei libri interamente sui documenti è stato un tedesco, Alexander Kluge, per esempio nel suo libro su Stalingrado. Io mi sono sempre tenuto a metà.    

 

(da “Mondoperaio” dicembre 1978, quinta parte)

 

60) Segue                  Â